“TRANSIZIONE ECOLOGICA” non è “CONVERSIONE ECOLOGICA”

Quanto è verde, realmente, il Recovery Plan?

Di Mario Cirillo, volontario FOCSIV, esperto di pianificazione e valutazione ambientale.

(Articolo pubblicato sul sito FOCSIV https://www.focsiv.it/transizione-ecologica-non-e-conversione-ecologica/).

Il 30 aprile il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), conosciuto anche come Recovery Plan o Next Generation Plan, è stato inviato all’Unione Europea. Secondo me le novità più significative rispetto al documento elaborato dal precedente governo Conte e datato 12 gennaio 2021 sono due. La prima è la premessa a firma di Mario Draghi, che si differenzia fortemente dalle prime pagine del documento del 12 gennaio (caratterizzate da più di qualche accento retorico) per una maggiore sobrietà nei toni e una incisività nello snocciolare alcune cifre – prevalentemente di carattere economico, ma anche sociale e ambientale – che evidenziano in tutta la loro drammaticità il declino del nostro Paese e il divario tra l’Italia e gli altri grandi Paesi dell’UE.

Tutto ciò mi sembra funzionale alla seconda parte della premessa, quella sul Next Generation EU, dove si argomenta come ineludibile la necessità di rimuovere gli ostacoli che hanno frenato la crescita del Paese e quella, concomitante, di rendere conto puntualmente alla UE dell’andamento delle riforme che renderanno possibile, tra l’altro, la realizzazione delle azioni previste nel PNRR nei modi e tempi previsti, consentendo così l’erogazione dei finanziamenti da parte dell’Europa. Insomma questi sono i paletti che incardinano e condizionano tutto quel che segue.La seconda novità è l’ampio spazio dedicato al tema delle riforme, che nella precedente versione del PNRR era solo accennato. Questo punto è a mio avviso fondamentale, perché coglie il fatto che i progetti del PNRR – qualsiasi essi siano, sui quali si può essere d’accordo o meno – sono destinati a un sicuro fallimento in un contesto amministrativo, gestionale e pianificatorio quale quello attuale.

D’altra parte – e mi pare che Draghi ne sia ben consapevole – questa è la scommessa più difficile, perché si tratta di fare in pochi mesi, al più qualche anno, delle riforme organiche che non si è riusciti a fare negli scorsi decenni, con un Paese e in particolare una classe dirigente che non sembrano essere nelle condizioni ideali per questa operazione. Peraltro cambiare approccio e stile del Paese e della classe dirigente è un processo lungo, non c’è tempo, per cui l’azzardo è rovesciare lo schema: fare le riforme per cambiare l’approccio, invece di lavorare a un cambiamento di approccio per poter fare delle riforme all’altezza. Veramente un azzardo, i cui esiti non sono per nulla scontati.Per quanto riguarda i temi previsti dal nuovo PNRR non mi pare ci siamo profonde differenze rispetto al vecchio, e non potrebbe essere diversamente visto che l’agenda è dettata dall’Europa. Percepisco una maggiore enfasi sull’approccio tecnologico, che fa trapelare una forte fiducia sul fatto che “la tecnologia può risolvere qualsiasi problema”, e che mi fa venire alla mente il termine “tecnocrazia” utilizzato da Papa Francesco. E poi le grandi opere, l’alta velocità, tanto cemento e via dicendo. Insomma, una transizione ecologica che, almeno per ora, poggia in gran parte sull’attuale modello di sviluppo. Devo ammettere che questo non mi meraviglia per niente (più o meno era così anche nella precedente versione), del resto anche a livello europeo e mondiale la “transizione ecologica” segue grosso modo questa traiettoria.

Chi ha dimestichezza con le Conferenze delle Parti per i cambiamenti climatici[1] sa che vi agiscono robusti e agguerriti gruppi di interesse e di pressione, che propongono e spesso impongono approcci e azioni per abbattere le emissioni di gas climalteranti in puro stile neoliberista. Insomma, cambiare tutto perché nulla cambi, per lo meno per quanto concerne il business e i flussi finanziari.Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, prendo atto che oggi il tema ecologico è nell’agenda di tutto il governo e non soltanto in quella del Ministero dell’Ambiente (ora Ministero della Transizione Ecologica), cosa che fino a un anno fa era impensabile. Di questo dobbiamo “ringraziare” il COVID 19.Resta il fatto che a livello mondiale l’unico leader che con coerenza invoca un vero cambiamento di paradigma – una conversione ecologica, non una transizione – è Papa Francesco.Tra le riforme della Pubblica Amministrazione previste dal PNRR c’è la procedura di Valutazione dell’Impatto Ambientale (VIA), individuata come “collo di bottiglia” sia a livello di VIA statale (che interessa le opere più rilevanti) che di VIA regionale (che interessa le altre opere soggette a VIA). Questa riforma si inserisce tra quelle che hanno il fine di semplificare e accelerare le procedure direttamente collegate all’attuazione del PNRR, e va attuata attraverso interventi da realizzare in tempi rapidi, quindi a brevissimo.Inefficienze e lungaggini nella procedura di VIA in Italia non mancano. Un motivo è la scarsa qualità degli Studi di Impatto Ambientale (SIA), che devono essere realizzati a cura del proponente l’opera: a diversi decenni dall’introduzione della VIA in Italia questo purtroppo è un fatto ancora frequente. Queste carenze nei SIA impongono da parte del valutatore l’avvio di faticose interlocuzioni, con richieste di integrazioni e quant’altro, in contesti comprensibilmente caratterizzati da forti pressioni trans-tecniche, e implicano inevitabilmente un allungamento dei tempi.

Certo accelerazione e semplificazione possono far balenare il retropensiero di un ulteriore indebolimento della procedura di VIA (che già non brilla particolarmente, anche a causa della menzionata scarsa qualità dei SIA), con maggiori possibilità di autorizzare impatti ambientali anche molto significativi.Io credo che sia possibile in linea di principio accelerare e in generale efficientare la procedura di VIA senza nuocere alla sua funzione di eliminare gli impatti ambientali significativi, anzi migliorandone le prestazioni anche sotto questo profilo. Per ottenere questo è necessario una reale sinergia tra la VAS (Valutazione Ambientale Strategica, che in Italia valuta i piani e i programmi, in altri contesti valuta anche le politiche) e la VIA, nel senso che la VIA di opere che ne sono sottoposte trarrebbe grande vantaggio dalle VAS dei piani e programmi in cui le opere sono incardinate. Certo le VAS andrebbero fatte come si deve, e per questo è necessario che gli obiettivi di sostenibilità a livello nazionale siano corredati di target quantitativi, che dovrebbero essere adottati nella Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile e declinati anche a livello regionale e locale, e le VAS relative ai piani e programmi devono confrontarsi sistematicamente con questi target quantitativi. Attualmente la mancanza di tali target quantitativi rende la VAS una procedura di limitata utilità, fornendo argomenti a chi considera tali procedure delle inutili complicazioni burocratiche che hanno come unico effetto quello di allungare i tempi, quando invece una VAS ben fatta, oltre a verificare la sostenibilità dal punto di vista ambientale delle azioni previste nel piano, rende molto più agevoli, rapide ed efficaci le Valutazioni di Impatto Ambientale delle opere di pertinenza del piano/programma.

È chiaro che questa integrazione virtuosa tra VAS e VIA, in particolare con la definizione dei target di sostenibilità, implica tempi non compatibili con le autorizzazioni delle opere di cui si occupa il PNRR. C’è da augurarsi comunque che la problematica degli obiettivi di sostenibilità non venga trascurata, e trovi spazio nell’attività di riforma di maggior respiro.E nell’immediato cosa si può fare? Nell’immediato va finalizzata l’adozione delle Norme Tecniche per la redazione degli Studi di Impatto Ambientale pubblicate a maggio 2020 dal Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA)[2], adozione prevista dalla normativa vigente: le modifiche normative introdotte con il Decreto Legislativo n. 104 del 2017 alla parte seconda del Testo unico dell’ambiente prevedono infatti che siano adottate, su proposta del SNPA, linee guida nazionali e norme tecniche per l’elaborazione della documentazione finalizzata allo svolgimento della valutazione di impatto ambientale. Tra l’altro le vecchie norme tecniche sulla VIA del 1988 non sono più in vigore, col risultato che attualmente chi realizza uno Studio di Impatto Ambientale non ha una normativa tecnica di riferimento; le conseguenze negative sulla procedura di VIA sono facilmente immaginabili.

Insomma, l’adozione delle nuove norme tecniche per la VIA sarebbe di enorme utilità sia per i proponenti che per i valutatori, ed è fondamentale per rapidizzare la procedura di VIA senza sminuirne l’efficacia, anzi incrementandola.[1] La Conferenza delle Parti (COP) è il principale organo decisionale della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC) approvata nel 1992, ha cadenza annuale e tutte le parti che vi aderiscono possono parteciparvi.[2] Del Sistema Nazionale a rete per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), istituito con la legge numero 132 del 2016, fanno parte l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) e le agenzie regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano per la protezione dell’ambiente (ARPA/APPA).

STRATEGIE DI RESILIENZA NELLE IMPRESE            IN EPOCA DI PANDEMIA

STRATEGIE DI RESILIENZA NELLE IMPRESE IN EPOCA DI PANDEMIA

per la serie di incontri  #insiemeincortile
VENERDI’ 26 MARZO 2021 ALLE ORE 21,00

ZOOM MEETING CON:

ROBERTO PROVANA, Psicologo, ricercatore, formatore e consulente delle organizzazioni nell’ambito della gestione delle risorse umane. Autore di testi inerenti la cultura manageriale e il self-help. Adjunct professor del MIP-School of Management del Politecnico di Milano.

CONDUCE:

GIUSEPPE SCIORTINO, Giornalista

LINK PER IL COLLEGAMENTO:

https://us02web.zoom.us/j/89962103308?pwd=REt4aUdLaHd6cE1zemJrU1BQcDhJUT09eFN2Zz09

Nei periodi di crisi emergono nuove abilità e talenti, mentre  molti paradigmi  sociali e comportamentali che sembravano consolidati soccombono  davanti all’imprevedibile. La resilienza, la propositività, una sorta di “immunità psicologica” nei confronti delle difficoltà premiano  persone e organizzazioni  innovative, abituate a  confrontarsi con le sfide anziché rimanere confinate in una  limitante comfort zone.

Quali sono le strategie messe in atto dalle imprese per sopravvivere alla tempesta  sanitaria e socio-economica in corso?

La conferenza presenta alcuni aspetti inerenti  le strategie di resilienza adottate per trasformare la crisi attuale in una epocale occasione di opportunità .

Nel corso della Conferenza verranno toccati i seguenti temi:

– I cambiamenti sollecitati dalle situazioni emergenziali

– Crisis management: la gestione dei millennials

– Aspetti della transizione dallo human al digital

– Competizione e coopetizione, i nuovi stili di leadership

– Stress, burnout, wellness organizzativo e fitness individuale

– Dalla mindfulness all’empowerment delle energie psicofisiche.

Donne e pandemia

Donne e pandemia

Anna maria Isastia

Venerdì 26 febbraio 2021 ore 21,00 #insiemeincortile

L’emergenza sanitaria in corso sta avendo un fortissimo impatto sulla vita e sul lavoro delle donne e Per

sta inasprendo disuguaglianze preesistenti, rischiando di compromettere importanti risultati fino ad oggi raggiunti in materia di parità di genere. Sono molti gli ambiti in cui la pandemia ha rafforzato criticità già presenti, come la condivisione dei carichi di cura, la violenza, l’imprenditoria, la formazione e la povertà.

Ne parleremo con Anna Maria ISASTIA, Professoressa di Storia Contemporanea Università Sapienza di Roma. Già Presidente nazionale Soroptimist, ha fondato nel 2010 la Rete per la Parità

Conduce: Giuseppe Sciortino

https://us02web.zoom.us/j/87120159238?pwd=L0gvQ0hOclVleHllM1Z5WlE5eFN2Zz09

Post Economia?

Post Economia?

Di Mario Carmelo Cirillo, attivista FOCSIV

«There is no alternative»

«Non c’è alternativa»

Questa frase è uno slogan utilizzato da Margaret Thatcher, prima ministra del Regno Unito dal 1979 al 1990 e leader del Partito Conservatore dal 1975 al 1990, e si riferisce alla sua convinzione che il solo sistema che funziona è la libera economia di mercato. La sua azione politica, insieme a quella di Ronald Reagan, presidente repubblicano degli Stati Uniti d’America dal 1981 al 1989, fu mirata a ridurre all’osso l’intervento dello stato in economia, liberalizzando la circolazione dei capitali e consentendo il più possibile al mercato di esprimere liberamente le sue potenzialità “senza lacci e lacciuoli”, ispirandosi alle dottrine del neoliberalismo.

Di neoliberalismo, e delle sue declinazioni nella variegata realtà italiana, si occupa il saggio di Francesco Maggio “Post Economia” (Armando Editore, 2020), che si colloca sulla scia degli interventi critici nei confronti di questo sistema economico. Il neoliberalismo nella sua forma più pervasiva si è affermato nelle democrazie occidentali a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso grazie in particolare alle politiche poste in essere da Thatcher e Reagan, e da molti è ritenuto responsabile del progressivo aumento delle disuguaglianze e in particolare della gravissima crisi economica del 2008, senza contare le devastazioni ambientali su scala planetaria. Francesco Maggio esprime una critica molto dura nei confronti del neoliberalismo e dell’establishment che lo sostiene, e si spinge addirittura a immaginare la necessità non di una correzione dei meccanismi economici in essere che si ispirano al neoliberalismo, ma addirittura – provocatoriamente – di una post-economia, in quanto “stiamo vivendo la notte più buia del pensiero economico” (pag. 12).

Cosa intende l’autore per post-economia? Il termine mi ha colpito perché, in senso stretto, non ci può essere una post-economia, così come non ci può essere una post-energia; ci può essere una diversa economia, come pure una diversa energia. Francesco Maggio appare consapevole di ciò, infatti considera questa espressione “fluida, non riconducibile a un significato ben preciso e condiviso, ma certamente evocativa dei cambiamenti epocali che stiamo vivendo” (pag. 11).

Il libro si situa immediatamente prima della faglia che separa il “prima” dal “dopo” COVID 19; questo a mio parere dà un sapore particolare alle riflessioni in esso contenute, soprattutto a quelle che fanno riferimento alla situazione italiana: Milano, il Sud, la politica, il terzo settore, … tutti temi che sono poi esplosi nel corso della pandemia; non a caso l’autore nel Prologo definisce il libro profetico. In effetti a valle dell’esplosione pandemica le riflessioni critiche (articoli, saggi, interventi) sul sistema economico attuale si sono intensificate, ricordo fra tutti l’ottimo libro di Mariana Mazzucato “Non sprechiamo questa crisi”, Laterza, 2020.

C’è da osservare che Thatcher e Reagan non sbucano fuori dal nulla. Inoltre le politiche che si ispirano al neoliberalismo avviate da questi leader conservatori sono continuate anche con leaderprogressisti come Tony Blair in Gran Bretagna e Bill Clinton negli USA. E in Europa il sistema di governance dell’Unione Europea – unico esempio al mondo di unione monetaria senza unione politica – è ispirato al neoliberalismo. Peraltro politiche che si ispirano alla dottrina del neoliberalismo si trovano in altri paesi prima degli anni ‘80, pensiamo ai giovani economisti cileni detti Chicago Boys, epigoni del pensiero neoliberale formatisi alla scuola di Milton Friedman a Chicago, consiglieri fin dagli anni ‘70 di Pinochet in Cile; oppure a tutta una serie di politiche di modernizzazione dei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” messe in atto dopo la fine della seconda guerra mondiale, che spesso portano a un continuo processo di indebitamento e di asservimento di questi paesi a multinazionali e a potenti paesi occidentali quali gli USA[1]. Tutto questo mostra che l’affermazione del neoliberalismo a livello planetario è il risultato di un’onda lunga.

In effetti fin dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale un nutrito gruppo di economisti e intellettuali tra cui Friedrich Von Hayek, Ludwig von Mises, Milton Friedman, intraprese una massiccia e capillare produzione di libri e saggi, non pochi di notevole livello, che auspicavano una rimodulazione del ruolo dello stato e un pieno dispiegamento della libera circolazione dei capitali e delle merci, e grazie a questo lavoro capillare nei decenni successivi le dottrine ispirate al neoliberalismo occupavano spazi crescenti nelle università e poi nei governi, in particolare con l’avvento di Thatcher e Reagan. Ma le origini del neoliberalismo risalgono a prima ancora.

L’onda lunga del neoliberalismo secondo Massimo De Carolis (si veda in particolare il suo saggio “Il rovescio della libertà”, Quodlibet, 2017) parte negli anni ‘30 del secolo scorso in Germania e in Austria per creare un’alternativa alla rottura del patto tra le classi dirigenti e le masse[2], a valle delle catastrofi della prima guerra mondiale e della crisi economica del 1929, con conseguente affermazione di regimi totalitari in Italia (Fascismo) e in Germania (Nazismo). L’idea era di modificare il meccanismo di governo “dall’alto” con un meccanismo “dal basso”, che non doveva reprimere ma al contrario doveva pilotare le crescenti esigenze di affrancamento e di libertà delle masse, in particolare indirizzandole verso attività funzionali alla crescita economica, il che avrebbe consentito il soddisfacimento dei bisogni espressi evitando derive totalitarie. Questo può avvenire, secondo il pensiero neoliberale, grazie al prodigio del mercato, che per questo deve funzionare quanto più fluidamente possibile. È la vecchia idea del liberismo classico, la mano invisibile del mercato, solo che il neoliberalismo non crede che ciò avvenga spontaneamente, ma che necessiti di meccanismi di governo che senza imposizioni esterne favoriscano dal di dentro il funzionamento fluido del mercato: il termine utilizzato (e abusato dai nostri politici e manager) è governance. Dunque il neoliberalismo non minimizza l’intervento dello stato o del governo come spesso si crede, ma anzi ha bisogno di un controllo continuo e capillare (si pensi a tutti i meccanismi di controllo dell’Unione Europea come l’anti trust, che come già accennato si ispirano al neoliberalismo).

Ma … c’è un “ma”.

Il punto è che quanto è successo nella realtà contraddice totalmente gli intendimenti originari del pensiero neoliberale. Di fatto il governo economico globale che si è realizzato partendo dal paradigma neoliberale è quanto di più antidemocratico si possa immaginare, esercitato da éliteformalmente di tipo tecnico-economico, ma che in realtà prendono decisioni politiche, sempre più ristrette e sempre più distanti dai bisogni reali delle persone. Sono queste élite, gli insider, che conoscono e gestiscono, spesso orientandole, le complesse dinamiche del mercato e della finanza globale, e a questi devono affidarsi (o per amore o per forza) gli outsider, quelli fuori dalla camera dei bottoni: si pensi al piccolo risparmiatore, cosa può fare se non consegnarsi a un insider (o presunto tale) sperando che le cose per i suoi risparmi non vadano troppo male, come purtroppo è accaduto agli aretini con Banca Etruria?

I disastri sono sotto gli occhi di tutti: a livello planetario si pensi al progressivo impoverimento di amplissime fasce di popolazioni e alle devastazioni ecologiche di Brasile, Africa, Australia tanto per citarne alcune; a livello Europeo si pensi alla tristissima vicenda della Grecia e al progressivo rafforzamento delle forze sovraniste e reazionarie inclusa la nascita di democrazie illiberali in Ungheria e in Polonia; a livello italiano, le cui tante contraddizioni e criticità sono efficacemente descritte in “Post Economia” da Francesco Maggio, si è assistito al montare di atteggiamenti critici nei confronti dell’Europa e alla concomitante crescita di forze politiche sovraniste.

Perché tanta distanza tra le finalità originarie del pensiero neoliberale e i suoi esiti? Un motivo rilevante, se non il principale, è la tensione tra dinamica imprenditoriale e dinamica speculativa. Lo spirito d’impresa si pone il tema di quale tra le possibili azioni avrà esito migliore, funzionerà meglio nel medio-lungo termine. Lo spirito speculativo ha una dinamica completamente diversa, in quanto si pone la domanda: “che cosa penserà il mercato domani?”, e opera di conseguenza per il proprio utile di breve periodo, senza curarsi se quanto fa sia, per altri versi, buono o cattivo, utile o dannoso. Purtroppo, meglio funziona il mercato, e più la logica di tipo speculativo prevale su quella imprenditoriale. Di fatto tutte le azioni e gli strumenti messi a punto dalle politiche neoliberali hanno condotto a mercati sempre più pervasivi e fluidi, con la conseguenza che la dinamica dominante è quella speculativa. Su questo punto i neoliberali hanno sempre glissato, mentre era molto chiaro a Keynes, il quale in contrasto con la teoria economica neoliberale sosteneva la necessità dell’intervento pubblico statale nell’economia. Keynes pensava infatti che più il mercato è liquido, più la dinamica speculativa si afferma in quanto più razionale in termini di utili immediati, anche se è la meno ragionevole. I fatti gli hanno dato ragione.

A partire dagli anni ‘80 l’abbandono negli Stati occidentali delle politiche di stampo keynesiano, soppiantate da politiche sempre più imbevute di neoliberalismo, ha grandemente favorito la liquidità dei mercati e di conseguenza le azioni speculative, ma non solo; tra gli altri effetti, il graduale indebolimento/smontaggio del welfare state e il rafforzamento delle politiche di austerità portate avanti, tra l’altro, dall’Unione Europea.

Poi arriva il virus.

In uno scenario in cui l’Italia – con un governo giallorosso succeduto, senza soluzione di continuità nella leadership, a un governo gialloverde  arranca con fatica per quadrare i bilanci all’interno dei rigorosi vincoli imposti dall’Unione Europea, dilaga la pandemia. Che si rivela un autentico spartiacque tra un “prima” e un “dopo”.

Si pensi al Next Generation Fund dell’Unione Europea (chiamato impropriamente Recovery Fund in Italia), una virata netta e forse irreversibile rispetto alle politiche neoliberali che costituiscono la cifra caratteristica dell’Unione, un provvedimento impensabile in condizioni pre-pandemia. O alla mancata conferma di Donald Trump alle presidenziali USA, anche questo un evento difficilmente ipotizzabile prima del virus.

Un discorso a parte, di cui faccio cenno brevissimamente in questa nota, ma che meriterebbe ben altra estensione in ragione della profondità e dell’ampiezza dell’analisi e della straordinaria rilevanza spirituale e morale di chi la porta avanti, va fatto per l’attività di Papa Francesco sui temi dell’economia e dell’ambiente, che poi sono facce della stessa medaglia, attività avviata ben prima dello scoppio della pandemia su posizioni di radicale diversità rispetto al modello attuale , e proseguita via via intensificandosi. Il percorso inizia con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudiumnel novembre del 2013, prosegue con l’enciclica Laudato si’ di maggio 2015, con l’esortazione apostolica post-sinodo sull’Amazzonia Querida Amazzonia di febbraio 2020, con l’enciclica Fratelli tutti di ottobre 2020, e culmina con l’iniziativa The Economy of Francesco. I giovani, un patto, il futuro – Assisi 2020, l’incontro che si è svolto online dal 19 al 21 novembre 2020, si è rivolto a economistiimprenditori e promotori di economia sostenibile under 35 di tutto il mondo, e ha visto 2000 partecipazioni da 115 nazioni.

Nel frattempo con le regole di distanziamento il virus sta ridisegnando le dinamiche sociali, in particolare nelle grandi città: di fatto, come affermato dall’urbanista Elena Granata alla puntata di Uomini e Profeti su Radio3 del 5 dicembre 2020, il vero urbanista oggi è il virus, che ha indotto cambiamenti che nessuna volontà ha potuto realizzare precedentemente.

Tutti questi segnali indicano una crescente consapevolezza che gli interventi che si richiedono nell’emergenza COVID 19, e che si richiederanno nel post-emergenza, necessitano di politiche radicalmente diverse da quelle in essere prima della pandemia. Quali? Per andare verso dove? Questo è il punto. La sensazione è di trovarsi in uno scenario talmente inedito, che tutto quanto è stato concepito e messo in atto finora è inadeguato: c’è bisogno di ripartire da un nuovo “orizzonte di senso”, da nuove categorie e visioni che consentano di mettere a punto nuovi strumenti. Purtroppo come in tutte le situazioni totalmente nuove, in assenza di precedenti si procede a tentoni. La mia sensazione è che tanti – forse la maggioranza di chi vive nei cosiddetti paesi occidentali – sono affezionati al modello e alla visione attuale (pre-COVID), o perché hanno rendite di posizione che non vogliono perdere, o perché il modello in fondo piace, tanto è vero che il mantra che si sente quotidianamente è: “Speriamo di tornare alla normalità prima possibile”, dove la normalità è la situazione pre-COVID.

In effetti il giocattolo messo in piedi in Occidente grazie alle politiche capitalistiche neoliberali esercita una indubbia seduzione sulle masse, in quanto privilegia la scelta del singolo invece che la decisione centralizzata: in questo sistema (almeno apparentemente) non decide nessuno, tutti sono liberi di scegliere. Ciò si nutre anche di un meccanismo di manipolazione seduttiva – già i primi neoliberali americani lavoravano fianco a fianco con i pubblicitari – che insieme alla spinta verso la crescita economica dà l’impressione alla gente di poter soddisfare tutte le proprie esigenze, siano queste spontanee o indotte: è il consumismo di massa. Si pensi a un centro commerciale: cos’altro è se non un Paese dei Balocchi per adulti? Il fatto che tutto questo sistema provochi spaventosi squilibri, sia all’interno dei paesi occidentali che tra l’Occidente e tutto il resto del pianeta, e altrettanto spaventosi disastri ambientali a scala planetaria, continentale e regionale, nonostante se ne faccia un gran parlare, di fatto finora non ha indotto significativi mutamenti di rotta.

Ci riuscirà il virus?

A dicembre, non appena è stato consentito, la gente nel fine settimana si è riversata in massa nelle vie dello shopping delle città per le compere di Natale e per gli aperitivi; a nulla sono valse esortazioni, raccomandazioni e perfino multe, a conferma della potenza seduttiva di questo modello. Anche questo mi induce a pensare quanto sia problematico disegnare scenari sul nostro futuro post-virus alternativi al modello attuale, e alla domanda: «Siamo in presenza di un cambio di paradigma?» io al momento rispondo: «Forse».


[1] Una descrizione inquietante di queste politiche si trova nel libro “Confessioni di un sicario dell’economia” del 2004 di John Perkins, pubblicato nel 2005 in Italia dalle edizioni minimum fax. Il libro ebbe grande risonanza, è stato tradotto in molte lingue e utilizzato in varie università, ed è stato oggetto di contestazioni e controversie.

[2] Il termine massa è una parola chiave nel lessico sociologico del XX secolo, vedi per esempio le locuzioni “società di massa”, “cultura di massa”, ecc.; la parola nei primi anni del ‘900 veniva utilizzata per connotare tutti coloro che non svolgono funzioni direttive e che costituiscono il materiale umano su cui si esercita l’influenza delle élite, protagoniste del processo storico.

Pandemia. Il Covid sta diventando classista: bisogna tutelare i più deboli

Pandemia. Il Covid sta diventando classista: bisogna tutelare i più deboli

di Alessandro Robecchi| 28 OTTOBRE 2020Alla fine, girandola come si vuole, guardandola da più angolazioni, la situazione è questa: centinaia di migliaia di ragazzi non possono andare a scuola perché i trasporti pubblici che servono (tra le altre cose) a portarceli fanno schifo e compassione, ovunque, senza eccezioni.Il bilancio di ciò che hanno fatto (e soprattutto non fatto) le amministrazioni regionali in sette mesi di quasi-tregua dell’epidemia è lì da vedere: desolante. Il tentativo di addossare soltanto alla famosa movida (in tutte le sue varianti) la responsabilità della seconda ondata non ha funzionato. Le immagini che ci vengono da treni locali, autobus urbani e metropolitane, invece, rendono bene l’idea: nessuno sano di mente può pensare che ci si infetti di più in un cinema semivuoto il giovedì sera (non dico dei teatri perché mi si stringe il cuore) che sul 31 barrato il venerdì mattina. Lo spettacolo è ancora più grottesco se si passa qualche minuto accanto ai binari di una grande stazione: la differenza tra chi scende da un Freccia Rossa – distanziato e garantito – e chi scende da un regionale – carro bestiame – è così evidente, dickensiana, da strabiliare.E ovunque si volga lo sguardo, ciò che salta agli occhi come uno squalo nella vasca da bagno è questo: le diseguaglianze volano, si moltiplicano, allargano la loro forbice, salvano chi sta in alto nella scala sociale e schiacciano chi sta in basso. La terapia intensiva sarà pure una livella, per citare Totò, ma prima di arrivarci di livellato non c’è niente. È una cosa che quelli dei piani di sotto, con l’ascensore sociale che non funziona, sentono ogni giorno sulla loro pelle. Gente che magari aspetta un tampone da giorni e legge costantemente di un mondo superiore dove ci si tampona ogni venti minuti allegramente tra vip, calciatori, star televisive. La Serie A, insomma, sfugge all’affannata burokrazjia sanitaria, mentre la Serie B e le altre serie minori arrancano al telefono con il medico di base, l’Asl, la coda in macchina con bambino che tossisce, la mamma che non può andare al lavoro.I sostenitori felloni di quell’imbroglio ideologico chiamato “meritocrazia” dovranno spiegarci come si fa a fare la gara del “merito” tra un ragazzo iperconnesso, attrezzato, munito nella sua stanza di numerosi device, e il suo omologo proletario, che si litiga il tablet con l’altro fratello, magari in un bilocale dove anche papà, o mamma, cercano di lavorare in smart working. Situazione dolorosa per la perdita di socialità negli anni più esplosivi della vita, per tutti; ma per il secondo ragazzino anche il rischio serio di mollare il colpo, di rinunciare, di abbandonare la scuola per essere risucchiato nella palude della bassa specializzazione, della mano d’opera a basso costo.Tracciare, curare, combattere il virus, insomma, è impresa titanica, e si sa. Ma c’è un’altra cura urgente da attuare subito: evitare che il virus diventi definitivamente e irrimediabilmente classista, cosa che già è oltre i limiti di guardia. La scommessa vera sarebbe quella di ampliare la sfera dei diritti: un tablet per ogni studente, un posto tranquillo sull’autobus, un reddito garantito almeno per campare, un accesso universale, rapido, gratuito per il vaccino, se e quando arriverà. Questa è la partita che deve giocare la politica. Se non lo fa, se nemmeno ci prova, se ci ritroveremo domani non solo in situazione di maggior povertà, ma anche in situazione di maggiore ingiustizia, significa che la politica non basta più, che il virus di classe ha vinto.